La società sessualmente diabetica
Stiamo realmente sviluppando un'attitudine più sana nei confronti del sesso come vorremmo credere?
Dalle voci più progressiste si sente spesso dire che “c'è ancora molta strada da fare” nel frangente della liberazione sessuale. Eppure, come spero sarò riuscito a persuadervi per la fine di questo articolo, continuare a premere sull'acceleratore senza voler aggiustare il volante sta chiaramente cominciando a costarci in modi che rifiutiamo di vedere.
Questo senza nulla togliere al fatto che ci siano degli aspetti su cui, viceversa, le voci più conservatrici continuano a mettere il freno con un fervore non più razionalmente giustificabile. A partire da un'educazione sessuale nelle scuole che alcuni ancora vorrebbero basata sull'astinenza, la cultura giudeocristiana da cui discendiamo1 chiaramente non si pone come baluardo di sex-positivity. C'è da ammettere, d'altronde, che neppure finge il contrario.
Cosa dire, invece, della cultura che vorrebbe contrapporcisi? Quella cool, quella in cui accettare è accettato, discriminare è discriminato, e ogni barriera o giudizio nei confronti del sesso dovrebbe, teoricamente, essere abolita?
Beh, nell'averci a che fare continuamente ormai da parecchi anni, diversi dei quali come rappresentante attivo, ho maturato l'idea che sia composta da persone preoccupate di ostentare libertinaggine e apertura mentale per sentirsi parte di un club, più che di coltivare la propria sessualità in maniera sana ed equilibrata.
Persone che, a parole, supportano qualsiasi manifestazione della stessa, soprattutto quando si tratta di celebrità che fanno coming out come non binarie, uomini al gay pride in atteggiamenti che in qualsiasi altra circostanza verrebbero multati, drag queen che spiegano ai bimbi la bellezza di essere fluidi. Uomini etero che fanno apprezzamenti, quelli un po' meno; ma hey, la pretesa di perfezione è nemica del progresso, no?
Persone nella cui utopia arcobaleno pure i mobili IKEA hanno un genere e un orientamento sessuale da esporre come marchio identitario, ma azzardarsi a flirtare esplicitamente con qualcuno e portarselo a letto richiede un atto di coraggio.
Il rapporto sessuale è da idealizzato e allo stesso tempo visto con sospetto fra i manifestanti più progressisti, in un modo ironicamente simile a quello dei cattolici più retrogradi: per questi ultimi, una tentazione del diavolo fino all'unione in matrimonio; per i primi, il frutto di una molestia, un adescamento, una coercizione o una violenza fino a prova contraria. La visione dworkiniana2 secondo cui il coito eterosessuale sarebbe un'estensione dell'oppressione della donna da parte dell'uomo si riflette in modo subdolo nell'ansia con cui moltissimi giovani lo vivono.
Gli uomini dividendosi sempre più fra chi, avendo anche solo un minimo di sensibilità, è terrorizzato all'idea di prendere qualsivoglia iniziativa sessuale potenzialmente sgradita e chi, viceversa, se ne sbatte di ogni cosa, compreso che le donne abbiano un'esperienza piacevole nel ricevere le sue avances o condividerci un rapporto. Più il gioco diventa viziato e rischioso, del resto, più la cerchia dei giocatori che continuano a parteciparvi con gusto si stringe intorno agli psicopatici, creando peraltro un effetto a catena che porta questi ad essere considerati rappresentativi dell'uomo medio, complice l'invisibilità di tutti gli altri.
Le donne, invece, manifestando una crescente mania di controllo per ogni singola variabile dei rapporti occasionali e non solo. Ne avrei tante di storie da raccontare a riguardo, ma una delle più semplici e simboliche è accaduta l'estate di qualche anno fa.
Avevo appena pubblicato un post su Facebook in cui postulavo che l'aborto elettivo non fosse un diritto fondamentale, bensì un privilegio; privilegio di cui ero comunque a favore, entro certi limiti. Mi ha scritto in privato una ragazza per dirsi in disaccordo con la mia idea e, come era ovvio che fosse, le ho proposto di litigare dal vivo cosicché potessi almeno distrarmi guardandola mentre facevo finta di ascoltarla. Ci siamo incontrati, mi ha detto che per un pompino avrebbe voluto vedere gli esami delle malattie veneree fatti negli ultimi tre mesi, oppure che indossassi un preservativo; al che le ho suggerito di evitare di fare pompini a sconosciuti, se l'eventualità di prendersi una malattia venerea la preoccupava a tal punto. Non ci siamo reincontrati.
Beninteso, non voglio negare il fatto che anche i rapporti orali implichino un rischio, seppur minimo, né sindacare sulle scelte di chi, piuttosto che rinunciare a bere, si prende una birra analcolica, bensì sottolineare come dietro all'esigenza di arrivare a tanto per mitigare certi rischi spesso non ci sia alcuna analisi obiettiva degli stessi. E per notarlo, in genere basta chiedere che vengano quantificati.
Cosa c’è, dunque? Provo ad azzardare: forse l’istintiva consapevolezza che succhiare l’uccello a un uomo sia un atto di una certa intimità? Forse il conflitto derivante dal voler vivere a tutti costi in maniera casual qualcosa che in fondo si “sa”, o perlomeno si “sente” non essere proprio casual?
Pretese come questa, al pari delle sempre più invadenti richieste di regolamentazione del consenso, sono in realtà la manifestazione di un'isteria celata in una veste di attenzione. Nell'ultimo decennio si è passati dal “no means no” allo “yes means yes” e si sta arrivando al fare domanda formale per potersi scambiare fluidi corporei fra sconosciuti: in Danimarca ci sono arrivati con l’applicazione iConsent, uscita sul mercato dopo l'approvazione della legge per cui ogni atto sessuale il cui consenso non sia stato inequivocabilmente esplicitato sarebbe da considerarsi stupro ai fini legali.
Va detto, il disinteresse assoluto con cui è stata accolta fra le persone più normali ha dato una nota di gradito conforto. In caso contrario, ci sarebbe stato da invitare le signorine danesi, se davvero avessero collettivamente attribuito al sesso una pericolosità intrinseca tale da necessitare di essere normato 'nero su bianco' in ogni suo aspetto, di andare fino in fondo ed inserire il prezzo per il proprio lavoro nelle clausole del contratto, già che c'erano.
Oppure, ad essere un attimo più indulgenti, invitarle semplicemente ad astenersi dai rapporti occasionali anziché arrivare a snaturarli così tanto, rovinando il gioco per tutti, pur di renderli accessibili anche a quelle di loro che chiaramente mancano della forma mentis necessaria a viverli per ciò che sono.
Vedete, il limite oltre quale il ragionevole bisogno di mettere dei paletti ai comportamenti consentiti in circostanze ambigue ha cominciato a degenerare in una psicosi da controllo è stato superato, a mio giudizio, nel momento in cui il lavaggio del cervello femminista ha convinto una massa critica di donne non solo di poter fare, ma di dover e voler fare le stesse identiche cose che fanno gli uomini, allo stesso identico modo in cui le fanno gli uomini, sesso incluso.
Il più grosso errore di fondo del paradigma che ha accompagnato la rivoluzione sessuale e la messa in commercio su larga scala della pillola anticoncezionale, forse, è stato pensare che la principale barriera al sesso fosse la sua accessibilità; che rimuovendone artificialmente le conseguenze più “indesiderate” – le gravidanze – e la stigma ad esso associata, avremmo cominciato tutti a goderne liberamente non solo in abbondanza, ma in modo sano ed equilibrato.
Sul primo punto, l'abbondanza, abbiamo toppato alla grande, ed è palese già solo dall'osservazione dei dati: i giovani, soprattutto uomini, hanno una vita sessuale sempre più scarna e insoddisfacente. Chi l'avrebbe mai detto che, potendo scegliere, le donne avrebbero puntato ai più attraenti e non si sarebbero semplicemente scopate tutti, vero?
Ma è sul secondo che vorrei soffermarmi. D'altronde, anche laddove quest'abbondanza ci fosse, diremmo mai che una cultura in cui, in nome della libertà di mangiare quel che si vuole senza essere giudicati, tutti girano con una maglietta con su disegnata la propria torta preferita, proponga un'attitudine sana ed equilibrata rispetto al cibo? Eppure è un po' quello che facciamo rispetto al sesso, in questa cultura che si pubblicizza in questo modo semplicemente in quanto esplicita e all'apparenza permissiva, quando di fatto sarebbe più accurato definirla “sessualmente diabetica”.
Come la disponibilità di cibo a portata di mano in quantità pressoché illimitate è un privilegio della modernità, lo stesso dicasi per la contraccezione, la prevenzione delle malattie veneree e la protezione legale dalla violenza. E come sfasato rispetto alla realtà attuale è il nostro senso di fame, lo stesso dicasi per i nostri sensi di allerta, diffidenza, percezione del pericolo e indignazione nei confronti del sesso, che più ci ripetiamo di ignorare e più riversiamo in maniera malsana. Non ci siamo evoluti per assimilare quantità così ingenti di cibo rispetto ai nostri bisogni, motivo per cui rischiamo di diventare grassi e diabetici quando lo facciamo; e non ci siamo evoluti per vivere la sessualità come se fosse una cosa da poter esercitare in ogni momento senza alcuna implicazione, motivo per cui rischiamo di sviluppare determinate isterie quando facciamo questo.
Ma se nel caso del cibo, quantomeno, i segnali sul nostro corpo e sulla nostra salute a un certo punto diventano talmente palesi da non poter essere negati, e così sarà almeno finché il degenero del movimento di body positivity non avrà finito di fagocitare pure i nutrizionisti, purtroppo quando osserviamo fenomeni sociali complessi come le relazioni interpersonali questo tipo di feedback ci viene a mancare, creando un loop: chi cerca qualcosa la troverà ad ogni costo, anche quello di ridefinirla continuamente.
È così che nascono le microaggressioni, un complimento sgradito diventa una molestia, un fischio diventa un pericolo, parlare di differenze attitudinali fra uomini e donne diventa discriminazione sessista e dichiararsi “queer” – un gesto che dice più sul proprio orientamento politico che sulla propria sessualità – diventa un pretesto per potersi ritenere vittima di una marginalizzazione immaginaria. Tutto questo, nemmeno a dirlo, è più pronunciato proprio laddove vi è maggior sicurezza, tolleranza e apertura nei confronti della sessualità.
Il modo in cui il nostro giudizio cambia e la nostra percezione si adatta per accomodare ciò che impariamo ad aspettarci è stato evidenziato in questa serie di interessanti esperimenti concatenati nella cui prima fase è stato chiesto ai partecipanti di contare, in mezzo a dei puntini colorati, quelli di colore blu. Dopo averli portati ad anticiparne un certo numero con ripetute iterazioni, le immagini hanno lentamente cominciato a cambiare e i puntini blu a diminuire: l'effetto è stato che hanno cominciato ad essere contati come blu anche quelli di colore viola.
Lo stesso è stato ottenuto nella fase successiva, mostrando fotografie di diversi volti e chiedendo di identificare quelli minacciosi, e in quella finale, ponendo una serie di richieste e chiedendo di identificare quelle non etiche: man mano che diminuivano i volti minacciosi, i partecipanti hanno cominciato a vedere come tali anche i volti neutri, e man mano che diminuivano le richieste non etiche, a vedere come tali anche quelle innocue. Questo effetto, ottenuto nel giro di poche ore di condizionamento, è rimasto prevalente persino dopo aver avvertito, istruito e pagato i partecipanti per resistervi consciamente.
Ora, immaginate di vivere in una società tutto sommato sessualmente libera e sicura, quantomeno al paragone con tutte le altre esistenti, ma di avere degli istinti naturali tarati nel corso di milioni di anni di evoluzione per percepire il sesso come un atto potenzialmente molto rischioso, in particolare se siete donne. Aggiungeteci una macchina mediatica che non fa che fomentare questi istinti parlando di emergenza femminicidio di qua, violenza di là, rapporti fra ragazzini ubriachi che il giorno dopo diventano stupri, misoginia interiorizzata, omofobia dilagante e quant'altro.
Vi stupisce che le piazze siano sempre più piene e i letti sempre più vuoti?
Il giornalista Douglas Murray3 ha descritto il fenomeno come una delle odierne pazzie delle folle, lo psicologo evoluzionista Gad Saad4 vi ha dato il nome più specifico di “omeostasi del vittimismo”, identificandone le radici biologiche, e il comico Andrew Doyle5 ha cercato di catturarne gli obiettivi latenti dal punto di vista sociale. Tutti e tre, come molti assieme a loro, hanno notato che esso si estende alla percezione di violenze e discriminazioni di qualsiasi tipo. Raccontano ad esempio, ciascuno con sfumature diverse, come anche la definizione di razzismo sia stata manipolata per poter sviluppare il concetto infalsificabile di “razzismo sistemico” ed estenderne l'accusa non solo alle istituzioni, ma a chiunque, bianco, non offra una sorta di compensazione. Una tattica molto simile a quella con cui, non molto addietro, la nostra Michela Murgia aveva sostenuto che il solo fatto di nascere maschi in un sistema patriarcale e misogino rendesse colpevoli di portarne avanti gli interessi.
È amaro e ironico allo stesso tempo che, nel volerci dissociare in modo così veemente dal retaggio cattolico che ci è stato imposto, siamo tornati al concetto di peccato originale.
Sarebbe bello poter eliminare certi problemi sociali del tutto. Ma nella matura consapevolezza che non succederà mai, forse è giunto il momento di realizzare che la nostra percezione può trarci pericolosamente in inganno e farci fare dei paradossali passi indietro mentre ci impegniamo ad avvicinarci all'asintoto. Il rischio di volerli vedere a tutti i costi anche dove sono diventati praticamente irrilevanti, o quantomeno del tutto gestibili in maniera puntuale, è quello di allontanarci gli uni dagli altri pur di crearne ancora e ancora, per soddisfare il nostro innato bisogno di diffidenza e cautela a fronte della nostra ingordigia di spensieratezza.
Cultura alla quale, va detto, dobbiamo molto più di quanto sia disposto ad ammettere chi, in modo arrogante e superficiale, vorrebbe sbarazzarsene del tutto.
Mi riferisco naturalmente alla femminista Andrea Dworkin, non al giurista e filosofo Ronald Dworkin.
The Madness of Crowds: Gender, Race and Identity (2019)
The Parasitic Mind: How Infectious Ideas Are Killing Common Sense (2020)
The New Puritans: How the Religion of Social Justice Captured the Western World (2022)
Ottimo pezzo. L'esempio che di solito faccio io è quello dell'autostrada: se vuoi diminuire gli incidenti puoi pensare di abbassare il limite di velocità, diciamo da 130 a 110 km/h e un effetto positivo è plausibile (quando ero bambino, a fine anni Ottanta, venne effettivamente abbassato il limite a 110 nei periodi di maggior traffico, il fatto che l'esperimento non sia mai stato ripetuto farebbe pensare che i risultati non siano stati apprezzabili ma non ho dati a conferma). Se però ti fai prendere dall'ossessione e continui ad abbassare il limite, prima a 90, poi 50, poi magari a 30 km/h, non solo non migliorerai la situazione, ma rischi anche di peggiorarla. Innanzitutto perché se si deve andare da Roma a Milano a 30 all'ora semplicemente non ci arrivi e smetti di usare l'autostrada, e questo vale per chi le regole le rispetta e vuole sempre rispettarle: quindi già così la frazione di pirati della strada aumenta. Ma poi c'è anche un altro effetto: qualcuno che le regole le rispettava e non vuole o non può rinunciare all'autostrada (magari perché non può permettersi aerei e treni AV) semplicemente non rispetterà il limite di 30 km/h. Attenzione, però: non è che si limiterà ad andare a 130 come prima, una volta che hai infranto la regola tanto vale andare anche a 170, tanto comunque sei lo stesso un pirata (un incel-maschilista-patriarcale-mra, fuor di metafora). Risultato, avremo un autostrada piena di pirati che vanno a 170 e oltre. Meno macchine in totale, ma quasi tutte effettivamente criminali. Così chi vive sull'emergenza pirati, sulla pirateria sistemica, sul "c'è ancora molto da fare" potrà continuare a vivere dell'emergenza: non vedete che tutti gli automobilisti sono dei pirati, dateci ancora più soldi e abbassate ancora i limiti di velocità! Poi però ci si meraviglia che a fare bene i conti sempre meno gente usa l'autostrada, chissà come mai.