L'attesa Cochrane Review, ossia una revisione sistematica della letteratura scientifica disponibile, sull'efficacia delle mascherine dà risultati disarmanti.
276.000 partecipanti, fra studi randomizzati per individui e studi randomizzati per cluster, e nessuna differenza rilevante sulla trasmissione di Covid e malattie simil-influenzali. Lascio a voi di valutare la dimensione dell'effetto e l'intervallo di affidabilità. Val la pena leggervi l'analisi per intero, se avete gli strumenti per comprenderla.
Per tutti gli altri: indossare una mascherina mentre siete in giro – anche una FFP2, sulla cui equivalente con certificazione americana, la N95, sono stati revisionati quattro studi sugli operatori sanitari e uno sui comuni cittadini – ha la stessa utilità comprovata di un rito scaramantico. Fate come vi pare, s'intende, ma non dite che state “seguendo la scienza”.
Anche perché non è che la scienza sull'argomento sia cambiata all'improvviso dopo tre anni. Evidenza solida che le mascherine servissero a limitare il contagio su larga scala non ce n'era prima e non ce n'è adesso. L'unica differenza è che, se prima poteva valer la pena ragionare in termini di “nel dubbio la metto” – fra adulti, almeno; fra bambini, per principio di precauzione, la cosa non sarebbe mai dovuta passare – ora non c'è più questa scusa.
“Ah, quindi sono stupidi i dottori che le mettono da sempre mentre effettuano le operazioni chirurgiche?” – Chissà? Mi limiterei a dire che è stupido chi vorrebbe confrontare mele e banane, ma in ogni caso non mi sorprenderebbe scoprire che anche questa pratica, come molte in medicina, sia in realtà perlopiù ritualistica e supportata da ben poca evidenza. Evitare che gli sputi finiscano nella ferita aperta del paziente e gli schizzi di sangue di questo vadano a posarsi in bocca? Ha senso. Prevenire i contagi da malattie respiratorie? A quanto pare, è proprio come ho appena detto.
“Eh, ma se solo la gente le indossasse correttamente, senza toglierle e spostarle di continuo…” – Dovrebbe essere ormai evidente che così non è, ma facciamo pure finta che così sia per un attimo e consideriamo un’ipotetica analogia: se per combattere il problema del sovrappeso proponessi tonno e insalata per tutti, non importa quanto l’idea sia efficace sulla carta: sarebbe comunque all’atto pratico una dieta che non funziona, perché nessuno riuscirebbe a seguirla. E sarei io un cretino a volerla adottare su larga scala, nonché un infame a recriminarne il fallimento sulle persone.
Parlando di dieta, o più precisamente di nutraceutica, una meta-analisi cumulativa sull'utilizzo della vitamina D nel trattamento per l'infezione da Covid ha verificato, secondo gli autori in modo definitivo, l'associazione con una significativa riduzione del rischio di finire in terapia intensiva.
Resta da verificarsi se abbia qualche effetto nel ridurre le morti dei pazienti già in terapia intensiva, ma questo è più improbabile. Come ben sa chi conosce le modalità in cui la vitamina D regola il funzionamento del sistema immunitario e la risposta infiammatoria, essa non è un farmaco miracoloso da prendersi “alla bisogna” per risolvere problemi puntuali, ma un nutriente essenziale la cui carenza cronica, della quale soffriamo in massa, predispone a problemi cronici, fra cui appunto la mal gestione delle infezioni.
Da notare, peraltro, che l'articolo su Nature si limita a quantificare la prevalenza nella popolazione di carenze severe, pari a valori nel sangue inferiori a 30 nmol/L; considerato che i valori ottimali sono almeno il doppio, la prevalenza di carenze subcliniche è ancora più alta.
Anche qui, non è che la scienza sull'argomento sia cambiata all'improvviso. Già analizzando i pazienti ricoverati nella primavera 2020 era stata trovata un'associazione, seppur non isolata, fra carenza di vitamina D ed esiti nefasti; e ben prima un'associazione sull'incidenza delle malattie respiratorie in generale.
Si dovrebbe passare tutti più tempo con la pelle esposta al sole, ma pare qualcosa di impossibile da coniugare con lo stile di vita odierno: lo stesso che porta ad un'epidemia di condizioni croniche prevenibili come l'obesità, per la quale di recente l'American Academy of Pediatrics ha di recente cominciato a spingere trattamenti farmacologici e chirurgici precoci. Al netto di queste perversioni, considerato il costo trascurabile e il rischio sostanzialmente nullo, se fatta nelle modalità corrette, di una supplementazione alimentare di vitamina D, fin da subito sarebbe valsa la pena ragionare in termini di “nel dubbio la prendo”.
Come diversi hanno fatto, sentendosi dare dei complottisti, laddove invece le stesse istituzioni ed autorità sanitarie avrebbero dovuto distribuirla gratuitamente, dando precise istruzioni su posologia ed esami di controllo, prima di coercire tutti, anche chi non ne aveva bisogno, ad assumere un farmaco sperimentale, dagli effetti di lungo termine sconosciuti.
Ma se avanzassi la mia sul perché la variabile più significativa nella regolamentazione di farmaci, integratori e indicazioni sullo stile di vita sembri essere il profitto che portano all’industria, anziché la salute dei cittadini, mi sentirei ancora dare del complottista.