Per poter diventare psicoterapeuta™, uno psicologo clinico deve affrontare ulteriori anni di studio post-universitario, in genere quattro, presso una scuola specializzata. La stessa, almeno sulla carta, dovrebbe fornirgli delle tecniche “più avanzate”, fondate su specifiche teorie di riferimento, per occuparsi dei suoi pazienti.
Cosa gli impedisce di occuparsene senza impararle, o imparandole da autodidatta? Nulla, semplicemente non potrà dire che ciò che fa con loro è psicoterapia™. Che è un po' come poter prendere l'auto e girare liberamente in strada, ma non poter dire che ciò che si sta facendo è guidare, perché non si ha terminato un corso post-patente su come cambiare le ruote a una motoslitta.
Se si cerca su internet la differenza fra uno psicologo e uno psicoterapeuta™, si trovano esilaranti giri di parole tipo…
Lo psicologo si occupa principalmente di fornire sostegno, consulenza e diagnosi mentre lo psicoterapeuta lavora sulla patologia, ovvero sul sintomo specifico. In pratica l'attività psicologica è orientata alla riabilitazione, al sostegno e alla diagnosi, ma non è curativa. La psicoterapia, invece, ha fini curativi.
…che più che risolvere un dubbio a chi non sappia a quale delle due figure rivolgersi, sollevano quello aggiuntivo su cosa faccia uno psicologo, all'atto pratico, che non possa fare qualsiasi altra persona.
A parte diagnosticare, s'intende. Ah, se solo il DSM fornisse degli effettivi criteri diagnostici e non dei parametri di valutazione basati sui sintomi espressi dal paziente, senza alcun test che possa verificarne l'oggettività. Se solo ciò che definiamo patologia psichica fosse un riflesso della conoscenza scientifica sul funzionamento della psiche e non della politica e della cultura del momento. Non è bizzarro che quella dello psicologo sia l'unica figura sanitaria che può diagnosticare, ma non prescrivere? L'unica il cui compito non è risolvere il problema del paziente, ma “dargli gli strumenti affinché possa risolverlo”? Il mio idraulico ha detto che a fottere lo scarico del WC è stato il calcare nell'acqua condominiale: quanto gli devo per questa informazione? È il caso che lo riveda ogni settimana affinché me la ripeta?
Sto partendo per una tangente, quindi forse è meglio che venga al motivo per cui ho voluto scrivere questo articolo: una persona a me molto cara, psicologa clinica con già qualche anno di pratica al seguito, si è appena vista negare la licenza di psicoterapeuta™ al termine degli studi nella scuola di specializzazione da lei scelta per via dei seguenti “problemi” con il suo lavoro di tesi:
Il suo approccio con un paziente nel corso del tirocinio è stato ritenuto troppo interventista o, per usare il loro lessico, troppo “cognitivo”. Trattandosi di una scuola di stampo analitico, in una faida perenne con le scuole cognitivo-comportamentali, evidentemente tale scelta è stata recepita come un grave affronto e poco ha importato che sia risultata in un clamoroso successo terapeutico.
Un altro paziente, il più problematico, ha abbandonato il trattamento. Il relatore l'aveva rassicurata che non ci fosse stato alcun errore da parte sua e che si trattasse di un soggetto obiettivamente impossibile da gestire, ma gli esaminatori le hanno comunque reclamato di non aver questionato a sufficienza se stessa nel farne resoconto. Al che, per non metterseli contro, il relatore ha attribuito la causa dell'errore alla stanchezza. Di lei.
In un passaggio della tesi, ha usato le parole “proiezione introiettiva” anziché “introiezione proiettiva”. Una cosa che in qualsiasi altro contesto sarebbe stata considerata un semplice errore di battitura, ma qui ha messo chiaramente in evidenza la sua mancanza di cognizione dei processi di antani in subordinazione alla mentecatta diagnostica di dovuto ordine significante alla pratica clinica.
E così, non senza essersi vista ridere in faccia da una commissione di psicoterapeuti™, si è sentita dire dagli stessi che non è abbastanza matura per fare il loro lavoro; e che avrebbero accettato una nuova tesi, rifatta da zero, solo dopo che avesse completato due ulteriori anni di psicoterapia, a una frequenza di due sedute a settimana.
Come tirocinante? No, come paziente.
Ora, sono certo che la mia sia un'interpretazione faziosa e lontana dalla realtà, motivata da un ingiusto bias nei confronti di un'istituzione che, a torto, ritengo stare in piedi su un castello di carta ed essere marcia fino al midollo, ma questo è quanto me ne è venuto:
In una faida fra scuole di pensiero, dimostrare fedeltà al brand e proteggere un certo modus operandi è prioritario rispetto ad adattarsi alla situazione e fornire a ciascun paziente l'aiuto più opportuno.
L'abbandono di un trattamento è cosa normale e frequente, specialmente quando si tratta di un trattamento con un tasso di successo estremamente aleatorio come la psicoterapia™. Ma per l'istituzione che lo rappresenta, biasimare l'incapacità di chi lo somministra è più facile che ammettere gli evidenti limiti dello stesso.
Le parole sono estremamente importanti. Anche quando si tratta di parole inventate, usate per indicare cose che non esistono.
C'è un'ottima definizione per tutto ciò e arriva nientemeno che dal wrestling professionistico: kayfabe. Avete presente ogni evento programmato a tavolino e messo in scena come se fosse reale, con la complice sospensione d'incredulità del pubblico? Questo è kayfabe. Ecco, avete presente l'idea che un percorso di studi in psicologia e poi eventualmente in psicoterapia™ serva a formare una persona a occuparsi della salute mentale altrui allo stesso modo in cui meccanica razionale serve a formare un ingegnere e infettivologia a formare un medico? Anche questo è kayfabe.
Sia ben chiaro, non significa affatto che uno psicologo sia equiparabile a un pirla qualsiasi. Nonostante la mia considerazione molto cruda del sistema a cui appartiene, non penso questo. Penso tuttavia che la sua bravura nel fare il proprio lavoro sia determinata in primis dal suo intuito, dall'attitudine che lo predispone a scegliere una certa strada e solo in ultima istanza dalle nozioni teoriche che acquisisce, le più utili delle quali vengono esaurite nel giro dei primi anni di studio. Da lì in poi, accumulare esperienza diretta con le persone lo formerà infinitamente meglio di un'ulteriore prosecuzione dello stesso, che più che “specializzarlo” lo metterà a contatto con concetti crescentemente fumosi il cui principale scopo è quello di dare un'aura di misticismo alla professione.
Mettere un avversario culo all'aria e picchiargli la testa sul pavimento è una mossa molto grezza. Ma se la chiami Tombstone Piledriver, beh, allora sì che diventa una figata.
L'idea stessa che un terapeuta debba necessariamente intraprendere un percorso come paziente prima di essere intitolato è assurda se presa in quanto tale – non si direbbe mai a un chirurgo ortopedico che, per essere in grado di operare, debba prima farsi operare – ma ha perfettamente senso nell'ottica di rito iniziatico a un culto. Nel caso di questa persona, due anni ulteriori le sono stati assegnati come espiazione per aver peccato e non certo perché funzionali a darle maggiore introspezione. Se non ci credete, sappiate che le testuali parole con cui le hanno contestato l'approccio al primo paziente sono state: “lo metteva davanti alla sua realtà psichica in maniera troppo chiara e lucida”.
La verità è che nove anni di studio – cinque di laurea magistrale e quattro di scuola di psicoterapia™ – non servono a creare dei migliori professionisti della salute mentale.
Servono a gonfiare il prezzo di una prestazione che nella maggioranza dei casi non è niente più di una versione glorificata del supporto sociale che un tempo, quando non eravamo in una società così atomizzata, ci davano famiglia e amici; e che viceversa in quelli più compromessi, in cui dovrebbe distinguersi per efficacia, spesso naviga nel buio e conta sull'ingenuità del singolo terapeuta nell'andare oltre ciò che gli viene insegnato a scuola, molto più di quanto non si vorrebbe ammettere pubblicamente.
Servono a creare kayfabe.